Lei era lì, ma non c’era, fin dalla prima infanzia in cui, come le avevano detto, dormiva molto e si svegliava solo per mangiare: un batuffolo di capelli nero corvino sugli occhi castani e una pelle dalla luce chiara per tutto il piccolo corpo tondo e ciotto come una luna. Abbracciava e sorrideva quando qualcuno si accorgeva di lei. Il mondo le sembrava un gioco strano, perché vedeva gli adulti affaccendati in cose la cui visione era per lei onirica.
Un abbraccio, comunque, tirava fuori l’umanità da un andirivieni organizzato e rigido, davanti al quale preferiva mangiare e dormire. Gli anni passarono e senza che lei se ne accorgesse aveva creato la sua felicità restandone lontana, vivendo in un giardino: aveva giaciuto nella sua solitudine come distesa su dei tulipani rossi, completamente appagata alla vista e al tatto. Fu difficile capire come si doveva organizzare non appena entrata nella pubertà, così restia a mettere da parte quei tulipani rossi. L’alone onirico che aveva avvolto la realtà esterna fino ad allora cedette il passo a una pesantezza che sembrava non allentarsi in nessun punto della trama; il mondo intorno le sembrava esangue, eppure sapeva che poteva esservi un’essenza vitale, ma che era difficile sentirla: quella realtà succhiava, in ogni sua manifestazione, l’essenza dei suoi tulipani rossi per risputarla fuori annerita e senza nerbo. Per non soccombere avrebbe fatto un patto col diavolo: cominciò a passare al setaccio ciò che aveva davanti e tra un buco e l’altro lasciò aperte le strade per lasciare andare via ciò che non le serviva per vivere e mise dei fili di sostegno per non far deteriorare il meccanismo tutto da lei inventato. Ne fu estremamente fiera e lo attaccò al cuore, in modo che quei fili fossero rinvigoriti dal battito. La macchina doveva essere molto resistente, mentre i suoi tulipani rossi continuavano a darle il puro piacere libero, infantile, non gestito mai dal bisogno di provare piacere.