Da anni scriveva romanzi per raccontare storie in cui la gente si ritrovasse come in un luogo familiare, dove potersi riconoscere con i propri sogni, le proprie malattie, i propri percorsi mentali… insomma una scatola magica dove rinvenire quegli spazi cercati invano da qualche altra parte.
Ma, da un po’di tempo, notava che sul tema “scrittura-lettura-vita” venivano elaborate teorie molto superficiali, a dir poco “da autobus”. “Hai letto il Codice da Vinci?”, diceva una donna a un’altra donna, proprio su un autobus: l’autobus, pensava tra sé, sentendo quell’acculturata conversazione, era per molti diventato l’emblema dell’espressione del luogo comune, forse perché se uno inizia a parlare con qualcuno che non conosce, non sapendo come intrattenersi, apre la bocca tanto per passare il tempo, nel totale disimpegno del cervello. Ma era vero anche che quei “discorsi da autobus” erano, ormai da tempo, scesi dall’autobus e penetrati ovunque. “No, ma devo assolutamente farlo!” rispose l’altra, mettendo uno strano accento su quel “devo”, un’enfasi a metà tra il look demenziale “à la page” e un volo a mezz’aria verso un mito di se stessi acquistato al supermarket dell’esistenza. “Sì ‘devi’, perché ti apre un mondo insospettato ed è scritto bene!”, disse l’altra. “Già…e hai visto le reazioni della Chiesa?” “E questo te la dice davvero lunga sulla faccenda!”. Per tutta la giornata queste tre frasi gli risuonarono nel cervello come segnali di disperazione, non perché lui era molto meno famoso di Dan Brown, ma perché non avrebbe mai potuto fare un’operazione come quella: tirare sulla gente uno scoop così invasivo da tranciare quell’ultima, probabile, risorsa di genuina semplicità delle persone come quelle che aveva sentito parlare in autobus. Pensava che l’operazione di Dan Brown violentasse quello che egli considerava un sacrosanto diritto dell’uomo: “restare ignoranti”; si trattava di un’operazione forte, perfettamente combaciante con il sistema che pulsava contro i complessi di inferiorità di buona parte della razza umana che, per non sentirsi tale, procedeva nella corrente senza capire dove stesse andando a sbattere. Quel giorno, dopo quelle riflessioni, scese dall’autobus guardando tutta quella gente per strada con una specie di sofferta sopportazione, di fastidio epidermico, soffermandosi di più su alcuni volti che su altri, per tentare di scoprire un qualcosa di unico ancora esistente: si trattò di un vero sforzo psichico, poi, esausto, a sera, quasi parlando da solo con gesti a mezz’aria pensò: “Questo è anche il mio pubblico, come farò?”.