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Don Carmine paterno

“Buongiorno Nino!”
“Buongiorno a bbuje, Don Carmine!”
“Hai dormito bene o, ca pi chilla faccenda, hai dormito proprio male?”
“Che faccenda Don Carmine?” Nino venne fulminato dallo sguardo del vecchio come da una scossa elettrica. Per la scaltrezza e l’esperienza che aveva della gente del posto, il vecchio entrò come un razzo nell’effetto che quella scossa aveva prodotto nella natura poco chiara di Nino.
“Hai visto Nicolino?”
“Mo’ ha bbinuto ‘a Sibari!” “E addùjè?”
“A int’alivi”
Don Carmine girò lo sguardo verso la piana, cercando di scorgere la figura del fattore tra quegli alberi secolari, ai quali aveva dedicato tutta la sua vita: un ampio pendio verso il mare, un poggio generoso di foglioline verde argento e tronchi robusti, sovrastante la piana.
“Buongiorno Nicolino!” “Buongiorno a bbuje, Don Carminù” “Hai dormito bene?”
“Beh, mica tanto?”
“E ppicchì?”
“Pi chilla faccenda!”
“E tu che c’entri!”
“Ji u saccie, nente! Ma on bulera, ca doppe a gente …”
“E tu sei pulito, io lo so!” Nicolino tirò un sospiro di sollievo, senza farlo vedere, ma come per la scossa elettrica di Nino, Don Carmine penetrò ogni vibrazione: era come se lui, per quella gente di Calabria avesse dentro il cervello una specie di sismografo che registrava cose che nemmeno loro sapevano. Dentro di lui c’era una specie di miscela esplosiva: “Scaltro come il serpente, puro come una colomba!” “È i cussì che voglio essere!”, aveva detto alla nonna dopo aver letto i Vangeli all’età di dieci anni; “E allora si jed’j cussì, devi andare a studiare fuori, poi ritorni, se vuoi, verso i quaranta, non prima, picchì per essere anche puro, devi vedere il mondo, qui vedi solo terra!”, rispose la vecchia con decisione.
“Nicolino, addu jè Gaspare?”
“Nt’u’ capannune, sta aggiustando il trattore!”
“Ah!”
“Ah!” fece eco Nicolino, rimanendo a guardare il padrone che si allontanava.
“Buongiorno Gaspare!”
“Bongiorno a bbuje, Don Carmine!”
“Hai dormito bene?”
“Cussì, cussì” disse, muovendo la mano unta d’olio, “È stata una cosa troppo infame, là, proprio là… “, disse indicando il punto in cui la cosa infame era accaduta, a sinistra del capannone, vicino al fienile, “Con gli occhi spalancati, u frote-cugìne i’ Iolanda, mugghierma, ha muortu cumu a nu surice!” Era il primo dei tre che dava nome e cognome alla ‘faccenda’, Don Carmine pensò: “Sceneggiata? O vero dolore?”
La faccenda, la cosa infame, o la morte da sorcio, comunque la si volesse chiamare, a seconda dei gusti o della coscienza della propria anima, era andata così: il 15 agosto, il corpo di Vincenzo Occhiuto era stato ritrovato, senza vita, alle ore 15; unico suono intorno al cadavere rannicchiato sul lato, con gli occhi aperti verso il mare in lontananza, era un fitto ronzìo di zanzare che, in una danza di morte, disegnavano scie nere, prima dì scegliere il posto più fitto di sangue dove succhiare; sembrava che, in quella landa arsa dalla calura estiva, il morto fosse rimasto lì a terra pronto per quei piccoli e fastidiosi insetti che, per ore, avevano svuotato il cadavere del suo sangue. Era stato Nicolino a scoprire il corpo, rischiando di cadere, tramortito dalla paura, ai piedi di Vincenzo Occhiuto: “Ji on capìa cchiù nnente, agghiu quosi svenute!” aveva detto a Don Carmine il giorno dopo, “agghiu rimese a terra senza respiro!” Poi, aveva trovato la forza di telefonare al maresciallo e in pochi minuti si erano aperte su quella “cosa infame” le poche, ma significative facce, dei parenti della vittima, ombre mute sul cadavere di un uomo dalla vita poco chiara.
Ora, Don Carmine era costretto a immaginare quella scena attraverso il racconto di ognuno di loro. Alzava la faccia verso la piana per prendere respiro, poi puntava ancora lo sguardo al posto del delitto: quanta misericordia aveva dato Iddio a quella terra di Calabria e quanta abbondanza di “cose infami” come quella! Oggi, guardava le immense e dorate distese di terreno fertile, come se fossero diventate del colore della pece: sulla sua terra, vanto della famiglia da generazioni e generazioni, un efferato delitto! “Scaltro come il serpente, puro come una colomba!”, come un vigoroso vademecum, quest’espressione, l’aveva sempre sostenuto, dipanando raggiri, astuzie di ogni genere, ma mai avrebbe pensato di chiederle aiuto per scoprire l’autore di un delitto commesso proprio sulla sua proprietà. Dal 15 agosto la sentiva sua solo quando volgeva lo sguardo verso gli ulivi. Sembrava che la gente del posto non lo rispettasse più, continuavano a lavorare per lui, ma le parole erano cambiate, gli umori erano come delle spugne zuppe della “cosa infame”, persino il maresciallo Franzese procedeva con una lentezza esasperante. Mentre i suoi quesiti volavano nell’aria afosa, egli sperava che da qualche parte venissero raccolti da una luce che aprisse al maresciallo una via dritta su cui procedere; una “via dritta” ripeteva incredulo, niente di più difficile per i suoi compaesani che vedevano cose torbide quando non ce n’erano, mentre restavano muti quando le avevano scoperte. A Don Carmine non restava altra scelta che quella di procedere da solo, ma con estrema cautela. Quella notte si addormentò tra le ombre di quel delitto, tra facce stralunate al suo capezzale: all’alba si alzò col terrore che anche gli ulivi avessero cambiato forma, trascinati da una maledizione. Fece la sua passeggiata mattutina, poi sedette all’ingresso della masseria, aspettando l’arrivo di Gaspare.
“Buongiorno, DonCarmine!”
“Ciao Gaspare! E Iolanda?”
“Eh… la disperazione ha pigghiete cumu a mamma chi tenede u figghje muertu!”
“I vulìjede kusì bbene a Vincenzo?”
“E che dite Don Carmine?! U sapiti vui ca zi’ Carmelina ha crisciute a tutti i duje, na minna a guno e na minna all’ate?”
“Senti Gaspare, ci vuoi dire che voglio venire a vederla?”
“E quanne?”
“Oggi pomeriggio!”
“Don Carmine, u sapiti, vui siti u patrune!”
Don Carmine alzò una mano con un sorriso. “Beh, mo’ vai!”
“Buongiorno Don Carmine! Avete dormito bene?”
“Mica tanto, Nino … “
“Sempe pi chilla faccenda?”
“E tu che dici?”
“Dico che si gavera ppi meane l’assassino u facera penne a na corda cume nu ‘mpicheate e doppe u ‘mmazzere…”
“E bravo… e magari sempe sulla terra mia, eh?”
Nino guardò l’uomo negli occhi: due fari neri lucidi, vispi e fosforescenti come quelli dei gatti; Don Carmine puntò i suoi: due gocce orizzontali ferme e sfacciate, di cui invano, per anni, egli aveva cercato di spostarne l’orbita: “E gghià, Don Carmine, stu fatte on’ tene nente a chi fari cu bbuje!”
“Ah, e allura picchì gavite sti facce strane quanne passe ji?”
“Ma cu?”
“Tutti!”
“Ma no, è picchì ‘a paura fa novanta”
“E di che?”
“Delle malelingue!”
“Attento Nino, si male no’ fari, paura no’ aviri!”
Nino distolse lo sguardo mentre nella testa di Don Carmine passò un’idea fulminea che mise subito in atto con una comunicazione:
“Oggi pomeriggio vado a trovare la povera Iolanda, a mugghierei’ Gaspare!”
“Ah! Sempe bbuone ccu’ nuji, Don Carmine!”
“È doveroso, povera ragazza… “
“Beh… mo’ vado int’alivi”
Don Carmine seguì la sagoma di Nino fino in fondo al poggio e poi si appisolò. Dopo poco, fu svegliato da quella parte di sé che era rimasta in guardia: abituato da sempre a dormire così, anche quando era sveglio, il suo modo di pensare era diviso in due, una zona veniva gestita dal serpente e un’altra dalla colomba; era come se tra loro ci fosse un tacito accordo: dove operava l’uno, l’altra non ci metteva il naso; solo in questo modo era riuscito a restare l’unico proprietario terriero ancora rispettato ed aveva potuto difendersi da tutti i soprusi di quei fittavoli che, costantemente nel tempo, avevano provato a strappargliela a due soldi o a esasperarlo con raggiri di ogni genere. Ora, quella parte di rettile dalla dura scorza, lo fece andare subito a cercare Nino per verificare se stesse davvero tra gli ulivi, ma, con non troppo stupore, si vide venire incontro Gaspare.
“Picchì si ccà?”
“Tengo bisugno i’ Nino”
“Addujè?”
“Onn’u saccie!”
“Torna al capannone, ci penso io”
Don Carmine non si dette la briga nemmeno di cercarlo, sapeva bene che Nino era andato ad avvertire Iolanda della sua visita: il pollo era caduto nella trama: “Ah Nino!”, “Accussì beddu e accussì scemo! Ed è scemo pure cu ha mise u muorte ccà”, pensò, proprio nella sua terra, perché lui era convinto, al contrario di quello che gli avevano fatto credere, che il delitto fosse stato commesso in un altro posto, ma era una convinzione che, per ora, gli veniva solo dallo stomaco.

“Bedda figghia, come stai?”
“Male, male assai!” Iolanda rispose, scoppiando a piangere.
“Vi preparo un caffè”
“Non ti disturbare, piuttosto, dimmi, hai visto il maresciallo dopo… “
“Nente!”
“Ah!”
“Hai visto Nino?”
“Sì, è bbenute pi sapì come stavo” “Ah, ti vuole bene, eh?”
“Assai”
“Ah, bedda figghia, a tij tutti ti vone bbene!” La ragazza scoppiò in un altro pianto dirotto, tra le sue braccia: “Ah, Don Carmine, vui site troppo bbùone!”
“Non ti preoccupare, che io mo’ vi proteggo a tutti!”
“Chi bbuliti fè?”
“Nente, nente, on gavì paura!”
“No, è che song ancora tutta stralunata!”
“È normale… “
“Beh, donammille stu ccafè!”
Ora guardava quella ragazza bella, procace, che più che veramente afflitta, appariva ai suoi occhi preoccupata: tanti anni prima, tra quelle pareti, in cui ora lei si muoveva con disinvoltura e da padrona, era stata la zia Carmelina a farlo, prima di iniziare a prestare servizio a casa sua, dopo il matrimonio della nipote. Da allora a oggi, quelle mura si erano riempite di cose superflue, le cose del benessere, del consumo e anche della tecnologia. Quanto aveva viziato quella ragazza la povera zia Carmelina, abbagliata dall’affetto e dalla triste sorte di non avere avuto figli suoi! Quanto si era data da fare per farle sposare il ragazzo più onesto della piana, il buon Gaspare, e quanto soffriva, ora, quel giovane uomo nel vedere la sua Iolanda così prostrata dal dolore! In quella casa di “oggi” c’era tutto il benessere che lei potesse desiderare e fuori, anche una bell’automobile tutta per sé, con la quale andava in giro dove voleva, mentre il marito lavorava la terra. Gaspare era bello come il sole, dentro e fuori, un calabrese doc, con la pelle scura e lucida, torace robusto e gambe lunghe e forti: “Nu Riaci!” come dicevano gli amici scherzando. Ma la sua vera bellezza stava nella laboriosità e nella generosità, una di quelle docili formichine che, passo dopo passo, aveva costruito tutto quello che c’era là dentro, realizzando i sogni della sua Iolanda, ma nessuno più di Don Carmine poteva sapere quanti soldi entravano alla fine del mese in quella casa tra lo stipendio del giovane e di zia Carmelina, visto che entrambi lavoravano per lui e tutta quella roba, che ora vedeva in giro, sommata alle informazioni sul tenore di vita della ragazza, era davvero troppo per i duemila euro che sarebbero bastati e avanzati, ma a gente diversa da lei: al suo Gaspare sì, ma non a lei!
Quella notte, l’uomo si addormentò pensando che la giornata non era stata senza frutto per le sue indagini: aveva fatto centro per ben due volte, quando aveva detto a Nino che sarebbe andato a trovare Iolanda, facendo in modo che lui si precipitasse ad avvisarla e quando aveva riflettuto a lungo su tutto quel benessere che imperava dentro le mura della giovane sposa. Tra indizi e ricostruzioni Don Carmine si addormentò meno afflitto del giorno prima e al risveglio, confortato dal buon caffè nero portatogli da Carmelina, dopo aver controllato la forma dei suoi pregiatissimi ulivi, programmò la sua giornata. Come prima cosa, scrisse due righe per il maresciallo Franzese, che andò a consegnare di persona in caserma, poi ritornò sulla sua sdraio all’ingresso della masseria e si mise in attesa: sapeva bene che le sue deduzioni non potessero essere considerate come delle vere e proprie prove, ma potevano, di certo, essere viste come dei solidi indizi per acquisirle.
Passarono due lunghi giorni, i più lunghi della sua esistenza: si sentiva inquieto nel tenere a bada il suo cervello nella morsa di ganci e connessioni, che mettevano in relazione vite, fatti e persone; non vedeva l’ora che venisse sostenuta la tesi che quel delitto fosse stato perpetrato nei confronti di un usuraio: Vincenzo Occhiuto e che, quindi, il movente fosse il denaro. Ma mai come per altre indagini, il maresciallo stava procedendo velocemente, anche se nella direzione sbagliata. Con le informazioni di Don Carmine, egli aveva ricevuto anche quelle di Nino, che aveva detto a Franzese, subito dopo essere stato da Iolanda, che Vincenzo Occhiuto aveva prestato una somma ingente al grande e inossidabile proprietario terriero, Don Carmine Paterno. Il maresciallo era stato convinto dal ragazzo a interrogare il vecchio, perché Nino gli aveva portato copia di fatture registrate dall’amministratore dell’azienda, riguardanti le costose migliorie apportate di recente alla masseria. Nel consegnarle al Franzese aveva detto: “Don Carmine si lamenta sempe ch’on tenede assei dineri! E allora… cumu jè che… ” Franzese lo aveva interrotto promettendogli che l’avrebbe interrogato.
Alle tre del pomeriggio il maresciallo varcò la soglia della proprietà: “State comodo, Don Carmine!”
“Allora?” “Allora… “
“Biniditte Ddij, maresciallo, u saccie ca non sù prove chille c’ agghije scritte, ma sù indizi, e allora… state indagando?”
“Sì, certo!” Franzese fece una pausa e si guardò intorno, poi: “Quante piante d’ulivi avete, Don Carmine?” Il vecchio si alzò dalla sdraio, il serpente picchiò alla porta della sua anima con tale forza da fornirgli tutti i passaggi necessari per fare diventare paonazza la faccia di quell’uomo grasso e che si lasciava ungere il cervello da chi, più del vecchio, ormai anziano, avrebbe potuto favorirlo in futuro, in qualcosa che nemmeno lui sapeva ancora. Don Carmine camminava e lui indietreggiava verso il cancello, petto contro petto. A denti stretti il vecchio aveva iniziato con: “Ringrazia la divisa che porti addosso” e finito con la stessa frase: nel mezzo di questa ripetizione aveva ricordato qualche particolare della vita del carabiniere, qualche piccolo pasticcio dal quale lui, proprio lui, Don Carmine Paterno l’aveva tirato fuori. Fu a questo punto del percorso che la faccia grassa era diventata paonazza. Poi, il cancello era stato sbattuto e aveva diviso, per sempre, quei due fuochi accesi, uno dall’ira e l’altro dalla bastonata tracotanza di colui il quale era “arrivato” alla divisa, anche e soprattutto con il sostegno di Don Carmine Paterno.
Quel pomeriggio sì che gli ulivi cambiarono forma: fu come se agli occhi del loro padrone fossero diventati anemici e tutta la piana di Sibari ululasse impaurita dall’ira del vecchio.
Verso sera, anche un’altra cosa cambiò forma o, piuttosto, prese finalmente l’aspetto di ciò che doveva, per dare spazio solo alla realtà dei fatti:
“Mo’ basta! Don Carmine ha dda sapì!”
“Sapì cosa, Carmela?” La donna rimase impietrita, con la cornetta a mezz’aria che il vecchio le strappò di mano:
“Pronto, cu sì?”, ma dall’altro capo fu il silenzio. Don Carmine mise giù il ricevitore. “Cu ccu parlavisi?”
“Cu me stessa… ?”
“Carmela Bisticci, donna ingrata!” egli urlò prendendola per le spalle e, sbattendola su una sedia: “Pi’ Ddij, parla beniditta fimmina!”
“Ddij vod’i cussì” la donna disse con un filo di voce. “Cussì cumu?”
“Cussì e basta!” ripeté singhiozzando. Il vecchio si calmò, chiuse la porta di casa e tutte le finestre, poi sedette di fronte a lei, prese un lungo respiro e cominciò a interrogarla: “Allora, vu parlé o no?”
“Sporch dinere!”
“Già!” le sue pupille puntavano dritte verso la donna. “Beniditta figghia!”
“Già! Figghia e dinere… Iolanda?” la vecchia annuì.
“È stata lei?”
“No, io!!!” la donna urlò. “Tuu?!”
“Sì, ppicchì Vincenzo Occhiuto jè nu ‘mprestasolde!”
“E ppicchì tuu! Beneditta fimmina?” Don Carmine urlò andando avanti e indietro per la stanza con i pugni in aria.
“Picchì ji songhe vecchia e Iolandajè bedda e cicheate di sordi!”
Il 15 agosto Vincenzo Occhiuto, come ogni festa comandata, andava a mangiare dai suoi più cari parenti: quando la sua grossa sagoma entrava in quella casa, le due donne mimavano volti diversi che, però, finivano nelle trame di una stessa parola: “usura”; mentre Gaspare, ignaro di tutto, giocava, senza rendersene conto, il ruolo di Alice nel paese delle meraviglie, perché senza premeditazione, aveva scelto di non vedere e di immettersi così sulla strada della libertà. Dopo pranzo, con la solita mano lesta e approfittando dell’assenza di Gaspare, Iolanda aveva preso dei soldi per darli a Vincenzo: tutto sembrava svolgersi nella regolarità di un rito ormai quasi semestrale, ma dopo che l’uomo aveva contato i soldi aveva detto:
“Non ha’ rispetteate i patti… pi li’ ati sordi passo domani alla stessa ora”. A quel punto,
già infuocata dalle fiamme dei fornelli, la zia Carmelina si era fiondata sull’uomo e lo aveva accoltellato urlando: “Mai cchiù ‘nta sta casa!”, un colpo secco al pomo di Adamo e Vincenzo Occhiuto si era accasciato al suolo, mentre l’ultimo filo di voce si spegneva nella gola ferita a morte. Erano le tredici in punto. Ora, tra una caldana e un’altra, Carmelina continuava a raccontare a Don Carmine, nei dettagli, la scena delle smanie e degli urli di Iolanda e di tutte le parole ingiuriose che la nipote le aveva gettato addosso. Poi, con grande suo stupore, la ragazza, dopo aver guardato nel vuoto per più di mezz’ora, si era alzata dalla sedia e aveva detto: “Mo veve a lavè, poi porto via il cadavere” “E addù?” lei aveva chiesto allarmata, ma la ragazza non aveva risposto e in pochi minuti lo aveva messo nel cofano della macchina ed era partita a razzo.
Ora, dopo aver raccontato tutto a Don Carmine, Carmelina era tranquilla, in pace con se stessa, egli era l’unica persona della quale aveva rispetto e per la quale avrebbe confessato tutto ai carabinieri. Il vecchio restava impietrito, senza riuscire a dire una parola, ma a sua insaputa, durante quella confessione una specie di terza parte, oltre a quella del serpente e della colomba, aveva lavorato dentro di lui, una parte che fino a quel momento egli non sapeva nemmeno di possedere, che riusciva a piazzarsi nel mezzo, nelle sfumature della vita, tra il bene e il male, tra il nero e il bianco e così tirato da quel nuovo pannello di colori, riuscì a prendere una repentina decisione: avrebbe convinto Carmelina a non fare parola con nessuno della realtà dei fatti. Ora si alzò e con voce paterna cominciò il suo discorso: “Figghia mia… c’è una voce dentro di me che mi dice che, comunque, tu resti innocente, perché c’è una giustizia che supera ogni condanna proclamata dagli esseri umani, che va oltre le apparenze, una specie di tribunale speciale che ha un’altra coscienza, ma che io, in questo momento. sento quanto sia molto più giusta davanti alle cose di questo mondo e che mi dice a chiare lettere che tu sei innocente …”
“Ma ji hagghi ‘ammazzeate!” la donna disse tremando.
“U saccie, ma u muertu t’avia ricatteate! Stasera tu non vai a casa, picchì chissa jè cchiù casa tua i’ chilla, lo è sempre stata!”, una flebile e tenera smorfia, come un accenno di sorriso, attraversò la faccia bianca di Carmelina, “Poi domani vediamo che dobbiamo fare. Se tua nipote e Gaspare ti vengono a cercare, gli dico ca tengh bisuogne i tije ccà… on è a prima volta” L’ombra traballante di Carmelina si alzò, s’inginocchiò ai piedi di Don Carmine e baciandogli con foga le mani disse: “Ji song n’assassina”. “Vaj mo’ ca tea ripusò!” La donna si alzò tirata dalle sue braccia ancora forti e sparì su per le scale che portavano alle camere da letto.
Non appena solo, la prima cosa che venne in mente a Don Carmine fu di far partire la donna: domani all’alba l’avrebbe portata a Catanzaro da sua sorella, dove l’aveva condotta già tante altre volte.
Quella notte il vento fischiò sugli ulivi e sulla piana, fischiò nella disperazione di Carmelina e nel dolore di Don Carmine, scrivendo punto per punto il piano per tenere lontana la donna da quel posto il più possibile e scrisse anche le parole che avrebbe detto a Nino, Nicolino, Gaspare, Iolanda e soprattutto al maresciallo Franzese, circa quella “cosa infame”. Il vecchio li avrebbe convocati tutti per parlare del morto senza “cchiù pili sup ‘a lingua, picchì lui du muortu sapìa tutto” e non c’era niente di buono! Ma la mattina dopo, nel vento andò a finire anche il suo piano, quando avvicinandosi al letto della sua devota Carmelina la trovò riversa su un lato, col busto penzoloni. Con gli occhi lucidi d’amore e disperazione, in un solo istante Don Carmine Paterno raccolse l’epilogo di due delitti, quello umano perpetrato contro Vincenzo Occhiuto e quello divino nei confronti di Carmela Bisticci: ricordò le parole sulla sua innocenza, dette alla donna il giorno prima, mentre ora pensava: “È stata la colomba a mettermele in bocca! Dio sia lodato!”