Luci soffuse, un lento, una sera.
Dopo aver ballato, nel separarci, trattenni la mia mano nella sua senza accorgermene, muovendola in modo inequivocabile: piccoli tocchi prolungati tra il dorso e il palmo. Per molto tempo non ricordai quei gesti. Solo dopo alcuni mesi, quando lui mimò quel movimento leggero, ma evidente, ne ebbi chiara l’immagine come su uno schermo: ne ridemmo con ironia. La mia anima aveva portato le dita della mano sulla pelle di lui e il mio cervello, con quel che restava di razionale, era stato messo in cantina, per sollevarci da terra. Che beatitudine!
Ormai, da più di due anni, i nostri incontri di lavoro restavano sospesi sulle nostre teste: parole scandite da contratti, norme e leggi, che eravamo costretti a citare, mentre il nostro sguardo si dirigeva verso un altro spazio, che premeva per essere finalmente aperto. Si stava gonfiando per esplodere. Le serrature stavano cedendo.
“Avvocato…”, gli chiedevo, “Che ne dice se facessimo così, così, e così… bla, bla, bla,”, ma Sant’Iddio, quanto pieni di ben altro cominciavano ad essere quei suoni ripetuti come un disco rotto! Lui mi rispondeva a tono, certo, ma il suo sguardo era il ritratto di chi stava andando a impantanarsi nelle sabbie mobili: “Aiuto, sto affondando!”, sembrava dire a se stesso.
Erano stati mesi di un viavai di contratti, ma anche di silenzi e gesti che un altro spazio, spiando, ci inviava per poter capire come fare ad aprirsi il varco, irrompendo nelle nostre vite. Gesti ancora ondeggianti tra cielo e terra. Tra noi, quella che guardava più verso l’Alto ero io e non lui, ma era evidente che, questa volta il suo stare sempre con i piedi per terra stava per indebolirsi. In quanto a me, guardavo sempre verso l’Alto, quando cercavo la direzione giusta da seguire. “Alto”, scritto volutamente con la maiuscola, era per me la sintesi della Forza di tutte le forze, dove dentro c’è tutto, senza che ci sia nessuna religione, ma la Sacralità di ogni forma di esistenza.
Sembravamo due personaggi da fumetto, nonostante le nostre venerande età. Chi ha detto che l’età fa sbiadire quella freschezza di comportamento e di pulsioni? Se non si manifestano più è perché il poveretto o la poveretta che le ha incatenate è un negriero e meriterebbe la gogna per la distruzione insanabile di una riserva naturale. Noi ne eravamo la prova: eravamo lì pronti per essere cotti e mangiati dall’amore. Per pudore non lo scrivo con la a maiuscola.
La prima volta che l’avevo incontrato, dieci anni prima, era stato proprio lui ad aprirmi la porta dello studio: per poco non ero rimasta paralizzata dalla sua bellezza! Faceva finta di portarsela addosso inconsapevole, quasi con umiltà, ma non era vero niente. Che non fosse vero lo scoprii in un secondo tempo e per ora restai folgorata anche da questa apparente umiltà, come segno di elegante discrezione.
Erano passati circa dieci anni in quasi totale silenzio. Ma la vita spesso ti rimette davanti delle chiare provocazioni, ripetendo se stessa, finché non sei obbligato a svegliarti. Nomi, luoghi, persone, finché non ti obbliga a cambiare rotta.
Chi aveva più paura era lui: come si dice a Roma, io ero più scafata, perché proprio quella vita libera, senza vincoli, con le sue provocazioni, mi aveva resa più audace e resistente alle bidonate che sempre ti dà il volere essere razionale ad ogni costo. Lo so che la gente comune pensa il contrario, che è l’istinto a dartele, ma sono convinta, e il lettore razionale mi perdoni, che è proprio quel pensare piccolo piccolo che due più due fa sempre quattro, a tirarti le menate peggiori. Resti fermo in uno stagno a galleggiare come una papera con troppa poca acqua e quando poi decidi di saltar fuori è troppo tardi e tu ti assolvi attraverso la tipica lamentazione: “Sono proprio sfortunato!” Rifiutato dalla vita? No, solo senso di tempismo zero.
Dunque, noi ci stavamo svegliando. Finalmente quella razionalità “ferrea”, della quale mi accorsi subito, stava per essere soppressa dalla sua fortissima sessualità, che in quel periodo riuscì a operare dentro di lui una quasi miracolosa trasformazione. Quella sessualità, santa e benedetta, andò dritta tra le mie calde braccia, dentro un pathos di vita a lui sconosciuto. Lo tirai verso di me senza sforzo, in un’acqua ribollente dove iniziò a bere dopo anni di siccità! Divenimmo i nostri stessi sogni: lui il mio e io il suo. Non si poteva chiedere di meglio! Iniziò una storia tanto forte da “magnetizzare la nostra esistenza”, fu come un “centro” attorno al quale roteavano tutte le altre azioni, dai minimi problemi a quelli più pressanti: una specie di paradiso in cui veniva abbellita e resa luminosa la squallida realtà quotidiana, immersa in una follia collettiva senza senso. Cominciammo a giocare alla vita vera.