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Normalità

“Ma è normale!”, una voce esclamò alle sue spalle. Si girò: la donna, che aveva pronunciato con convinzione quelle parole, sedeva con le gambe accavallate al tavolo di fronte al loro. Lo sguardo, avvampato da quella certezza, dava al suo volto l’aspetto di una zucca di Hallowe’en, due occhi cerchiati con la matita nera e la bocca aperta da piccole maniglie rosso fuoco al posto delle labbra: due strisce di gelatina carnosasospese sotto il naso all’insù. “Sì, è normale, chiunque si sarebbe comportato così!”, rispondeva l’uomo, per il quale lei recitava, in quel momento, la sua parte.
Giovanni li guardava di sguincio, cercando di ascoltare quel dialogo sulla normalità che tanto interessava ad entrambi. Il cameriere si avvicinò al tavolo: “Il solito?”, chiese sorridendo, “Sì, grazie”, risposero all’unisono, riprendendo il loro dialogo sulla normalità. “Lei si sarà sentita sfinita, al punto di perdere quel poco di senno che le era rimasto, dopo quei mesi così difficili… lui deve averla esasperata con quelle sue continue e ossessive richieste che non stavano né in cielo né in terra…” “Quali richieste?” “Ma come, non lo sai?”, la donna si avvicinò all’orecchio di lui per sussurrargli parole segrete, lui sgranò gli occhi alla rivelazione, si scostò e disse: “Ah ecco perché lo ha denunciato!”. “Insomma… è normale che sia successo tutto questo!”, lei ribadì. Ora, Giovanni si soffermò sulla faccia dell’uomo – in gola, un nodo di cravatta ben stretto, di quelli che quando li disfi sembra ti venga in mano anche il colletto della camicia – e gli sembrò “confezionato” con il serio rigore della “normalità”. Giovanni si guardò intorno, senza fare più attenzione a quella sfilza di asserzioni sulla “normalità” di quei due che aveva di fronte. Il locale era di quelli “normali”… ancora una volta l’aggettivo gli risuonò nel cervello come una tromba d’aria devastante qualsiasi fantasia; era “normale” nell’epoca dei caffè della catena CULTI, dove la gente si cibava di veloci intervalli quotidiani tra insalate, colori e oggetti “new age” dal corpo scarno; era “normale”, per avvolgere nella suadente leggerezza dell’effimero e dell’ofano, i dialoghi tra le persone nutrite da rigide certezze e dall’ “oggettistica” di sguardi e sensazioni; era “normale” per l’epoca in cui, malgrado la lotta al passato nel liberalizzare i costumi, altri conformismi erano subentrati attraverso la sclerotica omologazione, quella che, per la sua invadenza dentro l’Io, ti percorre le ossa paralizzandoti; era “normale” per tutti coloro che trovavano piacevole ritrovarsi in questi tipi di luoghi per sussurrare alle orecchie dell’altro gossip da beceri salotti, incurante del fatto che, con ogni probabilità, quella finta segretezza sarebbe stata smentita poco dopo…
Uscendo dal locale, Giovanni si chiese: “E io, dove andrò a finire, essendo così anormale?”